L'influenza del "tocco" sul suono del pianoforte

In questo articolo affronterò una questione controversa: il tocco pianistico influenza il suono del pianoforte?

Molti pianisti professionisti sostengono che la tecnica pianistica e il tipo di “tocco” possano influenzare il risultato sonoro, a parità di “note” eseguite, alla stessa velocità e intensità, da un esecutore all’altro. Di contro, Fisici e studiosi dimostrano che il tipo di “tocco” pianistico non può influire sul risultato sonoro, a parità di “input”.

 

Per chiarire la questione, farò riferimento agli studi sul “tocco” effettuati dal noto Musicista e Fisico Pietro Righini.

 

Innanzitutto, è necessario definire il “tocco”: si tratta del puro fatto fisico dovuto all’abbassamento del tasto, oppure riguarda le varietà dinamiche che il pianista può realizzare, momento per momento, toccando i tasti del pianoforte?

 

J. Jeans, in “Scienza e Musica”, risponde presentando gli oscillogrammi di due suoni di pianoforte ottenuti, una volta facendo suonare le due note da un pianista professionista, e poi lasciando cadere un peso qualunque sul tasto. Dopo aver notato la similitudine delle due tracce, l’autore conclude osservando che “la curva non rivela il tocco del pianista”.

 

Circa quaranta anni dopo A. H. Benade scrive che: “anche se il pianista dosa nella maniera più raffinata il suo tocco su un dato tasto, egli non fa altro che imprimere una determinata velocità del martelletto, che poi ruota liberamente fino a percuotere la corda. Una leggera pressione esercitata a lungo è del tutto equivalente a una spinta breve, perché entrambe imprimano al martelletto la stessa velocità finale”.

Non ci può essere alcun dubbio in merito, non solo per il caso del pianoforte, ma anche per qualsiasi altro strumento musicale, voce umana compresa: riproducendo esattamente le condizioni fisiche mediante le quali l’uomo ricava un suono da uno strumento, o dalla sua voce, è chiaro che anche la più sottile delle analisi acustiche non potrà che confermare la perfetta identità tra il suono artificiale e il modello naturale.

 

Ha senso porre la questione in questi termini? Sappiamo dall’esperienza che ogni nota musicale risponde a una infinità di variabili che sono alla base della sua produzione, che ogni suono ha vita a sé stante e che nel passaggio da un suono a un altro si possono dare le condizioni più diverse. Nel caso del pianoforte, tali condizioni corrispondono alla forza, alla velocità con cui le dita del pianista “toccano” i tasti. E tutto questo si trasferisce alla corsa del martelletto verso la corda, che determina la qualità del suo contatto con la corda stessa, ovvero la qualità del suono.

 

Qualche anno più tardi rispetto alla prima edizione del libro di Jeans, esattamente nel 1940, i professori Ferrari e Manfredi, dell’Istituto di Elettroacustica “O. Cordbino” di Roma pubblicarono il risultato di una serie di loro ricerche sul pianoforte, tra cui emerge, per ciò che ci riguarda, un’analisi sperimentale sulla dinamica del martelletto, secondo la quale “la corsa del martelletto verso la corda è animata da piccolissimi scatti, come se il martelletto vibrasse con una norma dipendente dalla forza e dalla velocità con cui è stato abbassato il tasto”.

 

L’analisi sintetica della dinamica del martelletto e del suo contatto con la corda si può così descrivere:

  1. Ricevuto l’impulso attraverso l’insieme delle leve che lo collegano col tasto, il martelletto inizia la sua corsa verso la corda, descrivendo con velocità proporzionale alla forza ricevuta, un arco di cerchio.
  2. Contatto del martelletto con la corda e compressione del feltro che lo ricopre.
  3. Espansione del feltro, che è materiale elastico, e successivo distacco dalla corda.
  4. Ritorno del martelletto in posizione di riposo.

 

 

 

Dalla forza con la quale il martelletto tocca la corda, dall’entità della compressione del feltro e dalla durata del contatto tra il feltro e la corda, dipende la quantità di effetto dovuto alla legge di Young. E queste cose dipendono dal modo in cui il pianista “tocca” il tasto.

Se la percussione della corda è “morbida” si ottiene un suono “vellutato”; se invece è violenta è come se il feltro diventasse più compatto e rigido e il suono che se ne ricava risente di tale effetto, acquistando asprezza e “metallicità” anche molto accentuata. Le condizioni intermedie sono infinite ed ogni pianista ha un suo modo di “toccare” il tasto.

 

 

Possiamo dunque concludere che il suono del pianoforte è senza dubbio generato da una azione meccanica che porta il martelletto a percuotere la corda, ma tale processo include un’infinità di variabili fisiche che avvalorano la tesi dell’influenza del “tocco” sul suono del pianoforte.

 

Franz

 

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